Greenwashing: un lavaggio di coscienza nell’era della sostenibilità- H&M sotto accusa

Quella del climate change è una tematica che ci coinvolge ed allarma unanimemente, ponendoci giorno per giorno alla ricerca di plausibili rimedi.

Ecosostenibilità
“Una patina di credibilità ambientale”

Tuttavia, non si tratta di una battaglia estremamente facile, in quanto per una buona riuscita non è sufficiente un lavaggio di coscienza attraverso azioni vaghe ed infondate, ma occorrerebbero scelte drastiche e soprattutto trasparenti.

È una questione che, negli ultimi anni, specie nelle scelte d’acquisto nell’industria tessile, tocca in particolar modo i consumatori delle generazioni Y e Z, che tendono sempre più ad allineare le proprie preferenze di consumo ai propri valori.

Pertanto, apparendo il richiamo alla sostenibilità indispensabile per arricchire il valore di un brand, i marchi sono costretti ad adattarsi alle richieste dei clienti.

Tentano così di intraprendere un percorso di sostenibilità, assumendo oneri e promesse concernenti il tema sopracitato, e fissando diversi obiettivi climatici al fine di ridurre al minimo il proprio impatto ambientale.

Tuttavia, quest’occhio di riguardo dei consumatori per la tutela dell’ambiente, ha condotto numerosi brand a generare quello che viene definito “ecologismo di facciata” (in inglese “greenwashing”).

Si tratta di una strategia di comunicazione utilizzata al giorno d’oggi da numerose imprese, volta a costruire, attraverso la promozione di campagne di marketing, un’immagine di sé illusoria e fuorviante, al fine di appropriarsi indebitamente di proprietà ecosostenibili, stilate talvolta con criteri frammentari e poco credibili (sono infatti pochissimi i marchi che forniscono informazioni inerenti la tracciabilità dell’intera filiera).

Nella realtà dei fatti non si agisce né per tutelare l’ambiente, né tantomeno le persone, ma per la mera necessità di adattamento ad un nuovo modello economico che, per generare profitto, non può trascurare l’aspetto della responsabilità sociale.

Oltre a costituire un rischio immane, vanifica anche tutti gli esigui e faticosi tentativi di sostenibilità di aziende che realmente si stanno impegnando, provocando esclusivamente un rallentamento del percorso ed una confusione ulteriore nella mente dei consumatori, non in grado più di scindere cosa sia realmente giusto o sbagliato per una scelta d’acquisto sostenibile per davvero. Un esempio lampante di ciò, è l’indagine rivolta alla rinomata azienda di abbigliamento svedese, che ha condotto H&M sotto accusa.

Class action contro H&M: la nota multinazionale sotto accusa

Hennes & Mauritz AB, colosso del fast fashion svedese, è stato citato in giudizio per marketing ingannevole e per l’utilizzo di dati falsi e fuorvianti riguardo la presunta sostenibilità del brand.

H&M sotto accusa: greenwashing
Una sostenibilità insostenibile

L’accusa è stata avviata da una studentessa di marketing residente nello stato di New York, Chelsea Commodore, secondo cui etichette di sostenibilità, marketing e pubblicità dell’azienda svedese facevano risultare i capi più sostenibili di quanto fossero in realtà, fuorviando il consumatore.

Principalmente, l’azione collettiva legale allude alla scorecard di H&M, ovvero una scala di punteggi basata sulla qualità di un prodotto, in cui l’azienda avrebbe inserito delle valutazioni basate esclusivamente sul voto medio di un materiale utilizzato per la sua linea di abbigliamento, non considerando invece il punteggio sull’impatto ambientale basato su tutto l’iter di produzione e vendita di un prodotto terminato.

In particolare, Chelsea Commodore evidenzia come diversi prodotti della linea Conscoius Choice contengano fino al 100% di poliestere, materiale che non si biodegrada e disperde microfibre nell’ambiente.

Inoltre, tra i diversi aspetti reclamizzati da H&M e finiti sotto accusa, probabilmente la più incriminante, è quella riguardante le dichiarazioni sulla capacità di chiudere il ciclo attraverso riciclo e raccolta di capi usati negli store.

Nel testo del ricorso si evidenzia infatti come le “tecnologie per il riciclaggio sono ancora rare e poco disponibili per il commercio su larga scala, trattandosi di procedimenti ancora molto costosi, lenti e in sperimentazione” e che, qualora fossero utilizzati, H&M impiegherebbe un decennio per riciclare quello che vende in pochi giorni.

In primo luogo, la studentessa sottolinea infatti come il marchio, dichiarando di utilizzare poliestere riciclato dal PET delle bottiglie non di certo va a “chiudere il cerchio”, dato che se le bottiglie possono essere riciclate svariate volte, la loro conversione in prodotti tessili (al contrario difficilmente riciclabili) non fa altro che sollecitare il percorso verso la discarica.

Infine, anche il programma di take-back e riciclo in sé è fallace; i dati dimostrano come attualmente solo l’1% dei materiali usati per l’abbigliamento viene riciclato per farne altri vestiti, ed H&M è la seconda azienda più grande del mondo per volumi di vendite nel settore moda (la prima è Zara) e, secondo quanto riportato da una stima, produce 3 miliardi di capi all’anno.

La Commodore a tal proposito, sostiene infatti che sebbene esistano soluzioni per il riciclo tessile, sono ancora ben lontane dall’essere scalabili per questi volumi di produzione. Infatti fa notare come non vi siano aziende, specialmente se basate su un modello di business come il fast fashion, che siano 100% sostenibili.

Ma con questo caso, è stata solo sventrata l’ipocrisia di un marchio che, come tanti altri, omette la realtà dei fatti.

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